Veganismo, attivismo e aiuto psicologico – Ilaria Beretta intervista per Progetto Vivere Vegan due psicoterapeuti, Roberta Luberti e Andrea Baffa Scirocco, per meglio comprendere cosa può accadere a chi è vegan attivista in una società che non lo è.
La forza delle idee comincia dalla nostra energia personale.
Incomincia un nuovo anno lavorativo, è necessario essere consapevoli delle proprie forze nel lavoro, nella vita privata e nell’attivismo vegan che ognuno di noi vive e attua a suo modo, in forme singole o di gruppo.
Vivere in un mondo che non rispetta i diritti degli Animali e si fonda sistematicamente proprio sul loro dolore non è facile, può essere un martellamento continuo di sensazioni di inadeguatezza, di sconfitta e anche di disperazione, che è il contrario della speranza. Chi è impegnato in prima linea con reportage, denunce, azioni di disturbo, flash mob è sottoposto a uno stress maggiore, ma anche chi compie la sua scelta ogni giorno nel proprio ambito privato, davanti a un banco di carni o di formaggi può scoraggiarsi, perdere forza e orientamento. Però c’è anche chi scandaglia ogni giorno la sofferenza e ha fatto dell’”aver cura” il centro e il senso del proprio lavoro: incontro con…
Due psicoterapeuti vegani.
Roberta Luberti è stata membro del CISMAI – Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia; Andrea Baffa Scirocco è impegnato con il SIPROIMI – Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati (ex SPRAR – Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Roberta Luberti è medico psicoterapeuta e terapeuta EMDR – Movement desensitization and reprocessing – Sensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari), una tecnica approvata dall’OMS per il trattamento di eventi traumatici; Andrea Baffa Scirocco è psicologo clinico, laureato in Psicoterapia sistemico-relazionale. Entrambi hanno fatto la scelta vegan, lavorano in studio e in strutture pubbliche, anche volontarie. Avranno mai incontrato nel loro cammino professionale persone vegane?
“Tra le persone che si sono rivolte a me per un aiuto, ho incontrato più vegetariani che vegani, comune a tutti è la maggiore identificazione con le creature indifese e vulnerabili, spesso questa propensione è causata da pregresse sofferenze personali. “Anzi direi che la maggior parte del mio lavoro ha a che fare con gli esiti delle sofferenze causate spesso da vissuti di crudeltà”, dice Roberta Luberti, mentre Andrea Baffa Scirocco: “L’argomento “vegan” non viene mai toccato direttamente durante gli incontri, anche se mi è capitato di parlarne con i pazienti, strategicamente, in modo che potessero loro stessi affrontare certi argomenti.
La scelta vegana può aiutare a curare le ferite personali?
Andrea Baffa Scirocco: è rischioso metterla in maniera automatica, la scelta vegan è ampia, a volte può essere determinata anche solo dal salutismo. La scelta vegan non è “curativa”, anzi spesso può essere causa di sofferenza e ci sono importanti studi sull’eccessiva sensibilità trattata come disturbo. Io come professionista sono schermato, ho la possibilità di andare “in supervisione”, se un paziente con il suo portato di sofferenza può crearmi difficoltà, a mia volta posso chiedere un aiuto a un collega, è la procedura. Chi affronta la questione animalista in modo reiterato potrebbe non avere abbastanza supporto.
Roberta Luberti: Avere un ideale, un credo, un obiettivo può aiutare in un percorso di guarigione; diciamo che se si sono subìte violenze nell’infanzia, queste devono essere certamente trattate, e l’ultimo gradino nella “riparazione di sé” è riuscire ad aiutare gli altri, anche gli animali.
L’empatia, facoltà o dono che piove dove vuole?
RL: L’empatia è la capacità di mettersi nei panni degli altri, riuscendo però a non confondersi con loro. Si acquisisce quando abbiamo la fortuna di crescere con i caregiver primari – genitori, parenti, insegnanti, figure adulte di riferimento – da cui impariamo ad amare. In un famoso studio svoltosi in Romania su bambini “istituzionalizzati”, che non hanno mai avuto una famiglia e sono vissuti in istituzioni pubbliche, si è scoperto che nessuna forma di empatia riusciva a svilupparsi in loro. Il caregiver primario ti guarda e ti vede, si sintonizza con te, crea con te e tu con lui/lei un rapporto di fiducia; questo permette di sviluppare capacità emozionali che sono anche cognitive. È però necessario prestare attenzione a forme di “iper-empatia”, che ci portano a confonderci con gli altri, gettando all’aria la salvaguardia personale.
ABS: L’empatia è una possibilità, ce l’hanno tutti, ma non è una parola a senso unico. Giacomo Rizzolatti, che ha teorizzato i neuroni-specchio alla base dell’empatia, è un fautore della sperimentazione sugli animali; di sicuro ha una sua capacità empatica ma è direzionata e specista. Nell’ambito attivista prestiamo attenzione all’empatia, che porta con sé il rischio della sovraesposizione emotiva.
Sovraesposizione alle sofferenze degli Animali e scelta vegan: un aiuto dalla psicoterapia.
ABS: Il problema della crisi di una famiglia davanti a uno dei suoi componenti che diventa vegano l’ho vissuto personalmente. Volendo trascorrere le feste tradizionali con tutta la mia famiglia, so che a tavola nascono e si sviluppano molti problemi. Lo sapeva bene anche Salvador Minuchin, il grande pediatra psichiatra e psicoterapeuta argentino noto in particolar modo per aver sviluppato la terapia strutturale di famiglia: quando prendeva in cura una persona, andava a pranzo con la famiglia del suo paziente per capirne esattamente le dinamiche. La psicoterapia sistemico-relazionale considera proprio la persona nella relazione e da lì la osserva e cerca di aiutarla.
RL: Non ho mai avuto richieste di aiuto da persone vegane; ho incontrato persone che portavano in terapia profondi e gravi disagi e, scavando insieme nel loro vissuto, portavano a traumi vissuti soprattutto riguardo violenze viste su animali da cortile. Chi era riuscito a creare una relazione con qualche animale che poi vedeva uccidere, e magari ne era obbligato a mangiare le spoglie. Queste persone arrivano in terapia non certo denunciando questi fatti che sono magari accaduti decenni addietro; ne accennano, ma li giustificano senza troppo pensarci con la frase “allora si usava così”; mentre poi scavando più a fondo si scopre che da quei traumi si sono sviluppati disagi maggiori. Ho anche incontrato in terapia persone che hanno esercitato crudeltà sugli animali, questo è sempre un sintomo di una crudeltà subita.
Un “pensiero guida” per alleggerire il carico.
RL: Il mio pensiero guida? Non possiamo eliminare tutto il male del mondo, pensare al singolo aiuto che si dà è la chiave per vivere con positività. Noi abbiamo bisogno di vedere il positivo, ma può capitare che una persona vegana, un attivista per i diritti degli animali, si senta allo stremo delle proprie forze, cominci a odiare sé stesso perché non riesce a fermare il mare di violenza che ogni giorno si abbatte sugli animali, può essere completamente frastornato da immagini e documentari. Io dico che la prima cosa da fare è empatizzare con sé stessi: comprendere le proprie forze e i propri limiti. Quel bene che posso fare, anche se per il singolo animale, è in realtà prezioso per tutti. Ho lavorato per anni al CISMAI – Coordinamento italiano servizi maltrattamenti e abusi infanzia – e ho visto e sentito cose lancinanti, appena ho conosciuto queste realtà mi sono detta: faccio conoscere a tutti i maltrattamenti subiti dai bambini, le persone si sensibilizzeranno e la violenza su di loro finirà. Non è proprio stato così. Le persone sono spesso indifferenti, e se non lo sono è facile poi che le cose scivolino via spinte da altro. La forza di essere attivi noi la traiamo dal nostro senso di giustizia e dall’empatia verso noi stessi.
ABS: la necessità maggiore dell’attivismo è creare relazioni, far comprendere le motivazioni all’altro; in tutti gli attivisti c’è il rischio del burn-out, l’esaurimento delle proprie energie, che spesso porta ad attaccare l’altro, un atteggiamento sterile. Il problema viene sempre dalle relazioni con l’esterno, è come si viene accolti nel mondo, il “Manifesto queer vegan” di Rasmus Rahbek Simonsen spiega molto bene questi meccanismi di rifiuto/accettazione. E do anche un consiglio pratico: non parliamo mai a tavola della scelta vegan, perché negli altri fa solo scattare quella che chiamiamo “dissonanza cognitiva”, cioè gli fa pensare cose come “loro soffrono ma io li mangio lo stesso”. È quel meccanismo di difesa per il quale di due messaggi discordanti ne cancello uno perché diversamente non riuscirei a praticare un’azione. Se le persone si mostreranno sinceramente interessate alle nostre scelte se ne potrà parlare successivamente.
RL: Vorrei aggiungere una cosa per tutti gli attivisti: “Proteggiamo chi protegge”. Non disperdiamoci in dissapori tra forme di attivismo diverse, l’essere benevoli tra di noi è una forma di protezione che aiuta tutti, anche gli Animali cui ci dedichiamo.
Ilaria Beretta
Progetto Vivere Vegan