Isabella Ciapetti incontra per noi Arianna De Biasi, fondatrice di Dress_Ecode, un progetto di informazione e consulenza per una moda più sostenibile. Viaggio senza ritorno, dove eleganza fa rima con rispetto – degli animali, del pianeta, di noi stessi.
Da tanto tempo rifletto su come posso unire ambientalismo, veganismo e moda senza lasciare orme pesanti sul pianeta. Arianna De Biasi [1], la mente dietro a Dress_Ecode [2], è venuta apposta a Firenze per darmi qualche dritta. Come faceva Pollicino con le briciole di pane, lei fa cadere informazioni, idee e suggerimenti a ritmo continuo. Spero di aver raccolto, e scritto qui, briciole utili per tutti noi, nella speranza di assicurare (ancora) più giustizia al pianeta e agli animali.
Materiali naturali e sintetici, biologici e non
Ho sempre pensato che indossare capi in cotone (o lino, o canapa, o ortica…) fosse animal friendly e pure ecologico, e invece se il cotone non è bio è esattamente il contrario.
Biologico. BIOLOGICO. Biologico significa che un prodotto arriva sulla nostra tavola o sulla nostra pelle senza essere stato (volontariamente) tirato su con sostanze nocive, sia per noi che per l’ambiente. Biologico è LA parola che fa rima con sostenibile, insomma.
Se noi vegani rispettiamo la vita degli altri evitando di indossare la pelle e la pelliccia altrui, oggi ci troviamo davanti a una nuova consapevolezza: quella che accanto alle vittime dirette dell’industria dell’abbigliamento ce ne sono altre che finora abbiamo trascurato, costituita dagli abitanti, animali e umani, che vengono falcidiati dai prodotti chimici che respirano, bevono, mangiano, o su cui lavorano. E’ per questo che dobbiamo sforzarci di scegliere sempre prodotti biologici, anche per vestirci. Ed in questo consiste la sostenibilità, perché potrebbe arrivare un giorno in cui dovremo decidere se usare l’acqua per dissetarci o per i nostri vestiti. Purtroppo quel giorno è più vicino di quanto si voglia credere.
Il nemico numero uno delle fibre naturali è il poliestere, che con il cotone costituisce l’80% delle fibre utilizzate per l’abbigliamento (60% poliestere, 20% cotone, circa). Da un punto di vista ambientale il poliestere è IL problema, perché deriva dal petrolio (solo per cominciare pensiamo all’impatto delle trivellazioni sul pianeta), e perché è il costituente numero Uno della moda usa e getta.
Il poliestere si collega al mondo degli animali anche per via delle microplastiche, una delle maggiori cause di inquinamento dei nostri oceani. Ogni volta che laviamo i nostri capi in poliestere, microparticelle di plastica si staccano e vanno a finire nel mare, si depositano sul fondo, galleggiano ovunque, ma soprattutto vengono ingerite dagli abitanti dei mari (e successivamente da chi ancora li mangia).
I capi in poliestere sono spesso antimacchia perché subiscono ulteriori trattamenti nocivi con sostanze chimiche tossiche. Potrebbe essere interessante leggere qualcosa sull’impatto che hanno questi capi sulla nostra pelle, in termini di allergie o malattie dermatologiche indotte dall’utilizzo prolungato, soprattutto dell’intimo.
Anche se il problema della dispersione delle microplastiche rimane, il poliestere è riciclabile al 100%, così si sta allargando il mercato degli indumenti riciclati recuperando per esempio le bottiglie raccolte nell’oceano e le reti da pesca.
New entry e monomateriali
Oggi abbiamo davanti un mondo pieno di materiali nuovi, sintetici, plant based: scarti alimentari, uva, arancia, mela, ananas, cactus etc. Nei laboratori sono allo studio altri materiali nuovi, come i funghi, che permettono di togliere pochissimo all’ambiente. Sono materiali sostenibili, e a breve diventeranno anche più accessibili al mercato di massa.
Questi nuovi materiali vengono proposti ai vegani come sostituti della pelle, insieme ad alternative di tipo plastico, come il poliuretano o il PVC, che sono il peggio del peggio in termini di impatto sull’ambiente. Spesso i materiali plant based e il poliuretano sono mescolati, e questo fa sì che i prodotti non siano più riciclabili perché non scomponibili, e così si creano ancora più rifiuti.
Un indumento monomateriale invece può essere riciclato, mentre separare le fibre è costoso e difficile, e non sempre possibile.
Ho chiesto ad Arianna cosa ne pensa dei tessuti in Tencel e bambù, perché inizio a vederne diversi in giro. Ecco cosa ho imparato.
Sia il Tencel che il bambù, come la viscosa, hanno origine cellulosica, cioè si ricavano dalla corteccia di alberi. La viscosa subisce processi chimici che la snaturano completamente e la trasformano in qualcosa che non ha proprio niente di naturale. Inutile dire che i prodotti utilizzati per trasformarla sono nocivi per l’ambiente e anche per noi.
Il bambù è un mito da sfatare. Soprattutto agli inizi, quando si iniziava a parlare di moda sostenibile, tutti lo compravano. Il problema è che bambù e viscosa provengono da foreste non ecosostenibili, anche se per la coltivazione del bambù sono necessari meno acqua, meno fertilizzanti e meno pesticidi. Ma il trattamento chimico per produrre fibre e tessuti è lo stesso per entrambi. L’ideale sarebbe produrre il lino di bambù, cioè una fibra che subisce un procedimento meccanico anziché chimico. Purtroppo la produzione del lino di bambù è minima, perché molto costosa. Un’aggravante del bambù è che, oltre a non essere bio, è una pianta infestante, e dunque rischia di impattare sull’ambiente.
Il Tencel, come potrebbe essere il Kamut in campo alimentare, è un marchio registrato dalla ditta tedesca Lenzing e deriva dall’eucalipto e dal faggio. Il processo produttivo è a circuito chiuso, per cui le stesse sostanze chimiche utilizzate per la produzione di bambù e viscosa non vengono rilasciate nell’ambiente, ma recuperate e riutilizzate: l’impatto sull’ambiente è dunque ridotto, e il tencel risulta dunque una fibra più sostenibile. Oltretutto la Lenzing ora sta prendendo la certificazione Zero Emission.
Quanto costa la nostra eleganza?
Chiedo: deve esserci un limite di prezzo sotto al quale non si dovrebbe acquistare?
Arianna risponde prendendo come esempio una t-shirt, che tanto le magliette ce le compriamo tutti. Dice che una maglietta fatta rispettando tutta la filiera produttiva – cioè i materiali, gli stipendi e l’ambiente – non può costare meno di 30€. Se la paghiamo 3€, da qualche parte c’è qualcuno, persona, animale o ambiente, che sta pagando la parte restante.
E’ importante sottolineare che si può fare del male agli animali anche se non si indossano capi in pelle o lana. Pensiamo alla tintura dei capi sintetici, o ai trattamenti per migliorarne le prestazioni (per esempio, l’impermeabilizzazione antimacchia): le sostanze chimiche nocive che vengono rilasciate nel suolo, e nell’acqua, vanno ad avvelenare gli abitanti dell’ecosistema, cioè animali e umani che in quell’ecosistema vivono e/o lavorano.
La sostenibilità ha anche un aspetto sociale: spesso chi cuce i nostri abiti ha uno stile di vita al di sotto della decenza, e ho scoperto che nella coltivazione del cotone esiste ancor oggi la schiavitù! [3]
Shopping sostenibile
Dobbiamo iniziare a pensare che non possiamo prendere risorse dall’ambiente, usarle, creare qualcosa e poi farle diventare rifiuti: se vogliamo parlare di sostenibilità, dobbiamo assolutamente entrare nell’ottica del circolare. A questo devono pensare i designer quando creano i vestiti, a questo devono attrezzarsi le aziende, recuperando, riprendendo indietro etc. A questo anche noi dobbiamo pensare quando decidiamo cosa comprare.
Acquistare l’usato è la scelta economica più sostenibile.
Anche il riutilizzo creativo, o upcycling, è una scelta valida quando si acquista, perché gli oggetti acquistati non hanno subito processi produttivi. Si trovano borse molto belle ottenute da vecchi maglioni o vecchie lenzuola, come anche morbidi cuscini e fantastici cappotti ricavati dalle coperte della nonna a quadrettoni.
Il podio dello shopping sostenibile è completato dai capi riciclati, per i quali è necessario partire dalla separazione dei materiali che componevano l’originale, per arrivare a un processo produttivo che richiede più energia, prodotti chimici, emissioni… Ma sempre meglio che ricorrere a risorse nuove.
Non si tratta solo di lana e pelle
Il fast fashion, la moda usa-e-getta, non è più sostenibile, e dato che abbiamo gli armadi pieni, proviamo a usare quello che c’è dentro! [4] Arianna tiene diversi corsi, dove cerca di far passare il concetto che è più divertente e utile creare un proprio stile, in modo da non aver bisogno di cambiare il guardaroba in base alle mode del momento. Nei suoi corsi a comprare poche cose che stiano bene addosso e facciano sì che ci si senta a proprio agio; e poi se si ha proprio voglia di cambiarsi spesso c’è l’usato.
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Isabella Ciapetti
Progetto Vivere Vegan
[1] https://dress-ecode.com/about/
[2] https://dress-ecode.com/missione/
[3] https://dress-ecode.com/about/
[4] “Perché il nostro armadio salva il pianeta”: https://dressecode.thinkific.com/