Magnifica e violenta, l’Africa nera è dove siamo nati; per questo ci sentiamo a casa quando la visitiamo. Là (es)portiamo anche il peggio di ciò che siamo diventati. Ma nel suo cuore di tenebra, in Kenya, c’è chi opera perché possiamo godere ancora un po’ del Paradiso.
Del giorno di Natale mi interessavano solo i regali, da bambina: a parte quelli, spesso pure deludenti, avrei voluto saltare al 27 o addirittura a gennaio. Appena cresciuta, ho saltato davvero. Il viaggio-regalo 1992-93 fu un Tanzania-Kilimanjaro con Avventure nel Mondo, il compromesso perfetto fra il mio desiderio di Africa nera e quello di chi voleva andare in montagna. Zaino, sacco a pelo, occhi famelici. Non raggiunsi la vetta, ma per i miei standard arrivare a quota 4000 in due giorni fu un record.
Le due settimane in Tanzania resero palpabili i pensieri e le sensazioni rinchiusi in una mente, la mia, che da una ventina d’anni si nutriva di pane e letteratura africana. La “mia” Africa era il paradiso terrestre, ma in quelle due settimane dovetti fare i conti anche con il suo più devastante parassita: il bracconaggio. Quando nel cratere di Ngorongoro vedemmo dei ranger coi fucili spianati, ci spiegarono che ai bracconieri si spara a vista… per quanto poco serva.
Caccia grossa
In Danimarca ho visitato i luoghi di Karen Blixen, la ricca e nobile scrittrice di inizio secolo scorso che visse venti anni in una tenuta alla periferia di Nairobi, di cui raccontò nel libro La mia Africa. Molti hanno visto il film[1], con scenografie indimenticabili e una storia d’amore ben più calda di quella descritta dalla scrittrice – ma con un amante come Robert Redford, beh, era inevitabile…
La mia Africa racconta la vita dei coloni in queste magnifiche terre. Ngugi Wa Thiong’o, uno dei maggiori scrittori africani, ha definito Blixen come “ipocritamente razzista e condiscendente”[2], ma questo libro, contestualizzato, rimane un documento importante, nonostante sia lontano anni luce da qualsiasi considerazione etica nei confronti degli animali, per non parlare dei nativi!
I coloni e i viaggiatori avevano il macabro hobby della caccia grossa, che pare sia stata una delle prime cause del bracconaggio. La corsa ai trofei da appendere o stendere nel salotto buono si trasformò in una strage di massa, tanto che fin dall’inizio del 1900 perfino le istituzioni cercarono di arginare questa piaga, arrivando nel 1933 a istituire i primi Parchi Nazionali con guardie appositamente addestrate[3]. Ma si tratta di una guerra impari: il bracconaggio è un business da 20 miliardi di dollari l’anno e tocca tutti i mercati – dal turismo alla devozione religiosa a Boko Haram; un saggio molto interessante analizza questo racket internazionale, gestito in gran parte da Vixay Keosavang, “il Pablo Escobar del traffico di animali protetti”[4].
Con intento deterrente, alcuni Stati africani fin dagli anni ’80 organizzano falò con tonnellate di zanne sequestrate e, come ho detto, autorizzano le guardie a sparare a vista ai bracconieri. Fatto sta che viene ammazzato un pachiderma ogni 15 minuti, per un totale di NOVANTASEI al giorno! Perché la polvere di corno di rinoceronte, che fra l’altro non serve a nulla, costa più della cocaina, l’avorio nel mercato nero arriva a costare 2400 dollari al chilo e le zanne di un elefante adulto maschio possono valere fino a 300.000 dollari l’una.
In questa impari guerra si vede un ampio schieramento di forze di ogni tipo, di cui fanno parte anche due donne italiane molto speciali, madre e figlia.
Sognava l’Africa…
Narra la leggenda che a Treviso una bambina prese un brutto voto in un compito dal titolo “Cosa farò da grande”, perché non c’erano errori ma aveva corso troppo con la fantasia: aveva scritto che sarebbe andata a vivere nell’Africa nera e avrebbe salvato gli animali.
Fino a qualche anno fa il preside di quella scuola teneva ancora in bacheca la cartolina che Kuki Gallmann inviò alla maestra molti anni dopo dal Kenya, dove vive e contribuisce alla protezione degli animali e alla lotta al bracconaggio – che meraviglia, quando si corre insieme alla fantasia!
Kuki, figlia dello scalatore Cino Boccazzi, si trasferì in Kenya col secondo marito, e se all’inizio la loro vita non era diversa da quella dei ricchi espatriati (grandi feste, grandi cacce grosse, grandi ville, grandi giardini all’inglese), i gravissimi incidenti che causarono la morte del marito e del figlio Emanuele la portarono a rivedere e rivoluzionare la sua vita e il suo pensiero, dando vita a una fondazione in memoriam, che oggi gestisce con l’aiuto della figlia Sveva.
La Gallmann Memorial Foundation da circa 40 anni si occupa di protezione dell’ambiente a tutto tondo. Nella Great Rift Valley c’è la sua tenuta di 35.000 ettari, che le Nazioni Unite hanno dichiarato area chiave della biodiversità: si chiama Ol Ari Nyiro, “luogo di grandi sorgenti”, in lingua Masai. Qui Kuki ha creato un luogo di vacanza (con gestione olistica e cucina vegetariana), di studio e duro lavoro (anche intellettuale); l’ambiente valorizza le popolazioni locali e interagisce con la loro cultura. In questo vero e proprio paradiso sgorgano talmente tante sorgenti d’acqua da costituire il principale fornitore d’acqua dei grandi laghi della vallata.
La Riserva di Laikipia, come si chiama oggi, ha l’unica foresta originale della zona e ospita una straordinaria varietà di animali, fra cui gli ultimi rinoceronti neri, ed elefanti, ghepardi, insetti, più di 470 specie di uccelli, e alcuni siti archeologici.
La Fondazione Gallmann si mantiene in parte con la vendita dei libri autobiografici di Kuki; dal primo di essi – Sognavo l’Africa – è stato tratto un film con Kim Basinger[5].
Pole pole
Nel 2012 il danese Karsten Ree ha acquistato un campeggio nella Riserva del Masai Mara e lo ha trasformato nel Karen Blixen Camp, in memoria della sua connazionale. Il Camp porta avanti programmi per la protezione della natura, fra cui il Wildlife Habitat Protection Program, che provvede al mantenimento e alla protezione di una zona dove le leonesse vanno a partorire, e il Mara Elephant Helicopter Program, grazie al quale un elicottero veglia sulla vallata del fiume Mara per aiutare i grandi animali in difficoltà e per arginare il bracconaggio – ogni giro di pala, il battito di un grande cuore.
Guardo da sopra ai baobab, no!, anzi, dall’asteroide B612: due milioni di anni fa nella gola di Olduvai vedo un homo habilis, si alza e pole pole cammina… Se il tempo è un’invenzione moderna, sulla strada della civiltà e del rispetto degli altri ci siamo tutti, con Habilis, con Karen, e con Kuki, camminiamo, pole pole, che in swahili significa “piano piano”. Camminiamo, perché c’è ancora tanta strada da fare
Isabella Ciapetti
Progetto Vivere Vegan
BIBLIOGRAFIA E LINK
Karen Blixen, Out of Africa, 1937. Tradotto nel 1959: La mia Africa
Kuki Gallmann, Sognavo l’Africa, 1991; Notti africane, 1994; Il colore del vento, 1995; La notte dei leoni, 1998; Elefanti in giardino, 2001. Tutti editi da Mondadori.
gallmannkenia.org
www.karenblixencamptrust.org
[1] La mia Africa, del 1985, diretto da Sydney Pollack, con Meryl Streep, Robert Redford, Klaus Maria Brandauer, Iman (poi moglie di David Bowie). Ha ricevuto 7 premi Oscar.
[2] “Her Cook, Her Dog”, 1980.
[3] La London Convention for the Protection of Fauna and Flora nel 1933 ottenne la creazione di “santuari” al di fuori del controllo politico dei regimi coloniali, con l’intento di preservare gli habitat nella loro integrità come sistemi ecologici a sé stanti, e non come riserve di piante e animali rinchiusi, “liberi per l’eternità dall’interferenza umana”.
[4] Julian Rademeyer, Killing for Profit, Zebra Press; Random House Struik; Cape Town, 2012.
[5] Sognando l’Africa, del 2000, diretto da Hugh Hudson, con Kim Basinger, Vincent Perez, Daniel Craig.